San Gennaro: Il Santo patrono di Napoli

Una storia lunga duemila anni

San Gennaro patrono di Napoli Intorno alla figura di San Gennaro, al culto che gli viene prestato e al noto fenomeno della liquefazione del sangue esistono complesse questioni, che malgrado i molti studi pubblicati e la costante attenzione dell'opinione pubblica stentano a trovare risposte definitive.
Peraltro, nel tempo, la discussione sul tema si è colorita di elementi impropri, che hanno trasformato la "questione ianuariana" in un fatto quasi esclusivamente folcloristico, comprensibile solo nel contesto della calda ed esuberante pietà mediterranea, estrapolandola quasi dal suo più vero contesto storico.

Parlare invece di San Gennaro in termini filologicamente corretti si può. Basta separare le notizie storiche sicure - per la verità non numerose - da tutto ciò che intorno a esse si è venuto costruendo come pia leggenda.
La storia Nella leggenda si dice che le origini di San Gennaro erano nobili: anche prima della sua nascita ci si poteva accorgere che sarebbe stato un Santo. Infatti, quando la madre si recava in chiesa, sentiva il bambino agitarsi gioiosamente nel suo grembo.
Durante l'infuriare della persecuzione di Diocleziano, non oltre il 305, era diacono della chiesa di "Miseno" Sossio, giovane trentenne, stimato per la prudenza e la santità di vita.

A causa dei numerosi pagani, che frequentavano l'area flegrea per il richiamo che vi esercitava l'antro della Sibilla, egli viveva quasi in clandestinità. In quel periodo Gennaro, escovo di Benevento, si recò a Miseno e partecipò ad una liturgia, nel corso della quale ebbe certezza dell'imminente martirio del giovane diacono.
A distanza di poco tempo, infatti, il giudice della Campania Draconzio ordinò l'arresto dei cristiani del luogo. Tra gli altri fu imprigionato anche Sossio.

La condanna e le sepolture

Per consolarlo nella infelice circostanza, il vescovo Gennaro si recò a fargli visita in carcere insieme al suo diacono Festo e al lettore Desiderio.
Riconosciuti come cristiani, i tre visitatori furono a loro volta incarcerati. E il giudice, dal momento che essi confessarono con fermezza la loro fede e si rifiutarono di sacrificare agli idoli, li condannò alle fiere nell'arena di Pozzuoli, insieme al "misenate" Sossio; lo stesso magistrato, tuttavia, commutò la pena con la decapitazione. Mentre i condannati raggiungevano il luogo della esecuzione, alcuni cristiani manifestarono la loro protesta contro la sentenza; erano i due laici Eutiche e Acuzio, ambedue di Pozzuoli. Anch'essi furono allora arrestati e condannati alla medesima pena.
La decapitazione avvenne nel Foro di Vulcano nei pressi della Solfatara di Pozzuoli.
Inizialmente, il corpo del santo Vescovo martirizzato trovò sepoltura in una località non ben definita, detta Marciano, presumibilmente non molto distante dal luogo della esecuzione capitale, lungo l'antica via collinare che collegava Pozzuoli con Napoli.

Il vescovo di Napoli Giovanni I, però, volle un sepolcro più decoroso per San Gennaro e il 13 aprile di un anno imprecisato del suo episcopato, che durò dal 413 al 432, traslò il corpo del martire nelle catacombe napoletane sulla collina di Capodimonte, dove già si dava speciale culto a Sant'Agrippino, vescovo napoletano del III secolo.
Ma neppure la sepoltura napoletana doveva essere definitiva. Infatti, prima dell'832 Sicone, principe longobardo di Benevento, originario di Spoleto, ingaggiò una cruenta lotta contro il ducato napoletano e con la vittoria impose agli avversari una pace umiliante.
Napoli, divenuta tributaria del potente principe beneventano, fu costretta, tra l'altro, a cedere uno dei suoi beni più preziosi: le ossa di San Gennaro, che furono trasportate con tutta solennità a Benevento e deposte nella chiesa di Santa Maria di Gerusalemme.
Forse a causa delle frequenti scorrerie, che segnarono le aree interne della Campania fra XII e XIII secolo, le ossa furono trasferite dalla città di Benevento alla più sicura abbazia di Montevergine.

E qui rimasero quasi abbandonate per molto tempo; solo nel 1380 furono rinvenute sotto l'altare maggiore in un vaso fittile di forma ovoidale, di epoca longobardica.

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